
La proposta di Donald Trump nella conferenza stampa dello scorso 4 febbraio di deportare in Libia circa 2 milioni di palestinesi che abitano a Gaza per liberare la striscia e ricostruire, al suo posto, un mega resort turistico di lusso, una Dubai in stile monegasco, affacciata sul Mediterraneo Orientale, lasciandola di fatto nelle mani di Netanyahu, aveva ovviamente entusiasmato il leader israeliano. Perché ad un tratto inaspettatamente si era visto cadere dal cielo una soluzione perfetta per le sue mire espansionistiche. E ciliegina sulla torta, supportata addirittura dal neo presidente degli Stati Uniti, che in modo azzardato e un po’ ingenuo, anche se questa parola si fa fatica ad accostare al leader americano, è scivolato in un cul-de-sac. Perché questa, che può essere senza dubbio definita, la più incredibile proposta mai formulata in quasi 80 anni di conflitto, è stato davvero qualcosa che nessuno ha mai detto e fatto e che cambierebbe la storia.
Ovviamente il piano è stato rigettato da Hamas che l’ha definito “una ricetta per il caos” e dall’Autorità nazionale palestinese (Anp) che ha ribadito che la Striscia “è parte integrante della terra palestinese”. Anche dai paesi del mondo arabo si è levato un coro di critiche. l’Arabia Saudita ha segnalato che “continuerà i suoi incessanti sforzi per creare uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come capitale e non stabilirà relazioni diplomatiche con Israele senza che questo accada”. Allo stesso modo Egitto, Giordania e Turchia hanno definito il piano inaccettabile: “La questione della deportazione è una situazione che non si può accettare. Persino pensarci è una perdita di tempo, è sbagliato addirittura aprire una discussione”, ha detto il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan, chiarendo che nessun paese arabo o musulmano oserebbe accettarli, mostrandosi complici della deportazione forzata dei palestinesi da Gaza.
Insomma per quanto incredibili siano i progetti di Trump rappresentano senza dubbio un cambio di paradigma del ruolo degli Stati Uniti in Medio Oriente. Vedere un presidente americano che avalla l’idea dell’esodo forzato di oltre 2 milioni di persone, traumatizzate da mesi di guerra e bombardamenti, non solo segna la fine di decenni di politiche volte al rispetto del diritto internazionale, ma assesta un duro colpo a una credibilità Usa già traballante agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. Eppure, non c’è dubbio che la sua intuizione sia in linea con il Trump 2.0, un presidente che non sembra in alcun modo sentirsi vincolato dalle norme internazionali, dalla Costituzione o da chiunque intorno a lui. Perché Trump è Trump. Difatti da quando è tornato alla Casa Bianca, lo sta dimostrando nei fatti. Perché diversamente da quanto era successo nel suo primo mandato, questa volta il tycoon ha cambiato strategie affidando a Elon Musk le leve dell’esecutivo, mettendolo a capo del Dipartimento per l’efficienza governativa; congelando i finanziamenti per gli aiuti umanitari all’estero e chiudendo l’agenzia governativa UsAid: espellendo in massa gli immigrati irregolari; ordinando di bloccare i programmi federali per l’inclusione e la diversità, compresa quella delle persone disabili. In campagna elettorale non aveva fatto mistero dei suoi propositi radicali. Come quando, per Gaza, aveva parlato di un “piano per la pace” che avrebbe cambiato l’equazione in atto. Ora quel che dovrebbe chiarire è sulla base di quale diritto internazionale Washington intenda occupare, svuotare e ripopolare un territorio che, pur senza un governo legittimo, non è disponibile agli Stati Uniti semplicemente in virtù del loro desiderio di prenderne il controllo. Anche il primo ministro della Libia Abdulhamid Dabaiba sulla deportazione in Libia di un milione di palestinesi di Gaza, ha detto, nei recenti colloqui con Trump, che questo progetto è impossibile da realizzare. Primo, perché i libici appoggiano il diritto dei palestinesi di restare nella loro terra. Secondo perché sarebbe insostenibile l’arrivo di un milione di profughi. La Libia è a pezzi, è teatro di scontri tra milizie armate, Dabaiba è sotto pressione e potrebbe dimettersi come hanno già fatto alcuni dei suoi ministri. Quindi, con chi sta discutendo Trump del suo piano? Il sospetto è che il piano di deportazione dei palestinesi potrebbe essere finito anche sul tavolo di Khalifa Haftar, il rivale nell’Est del paese. Ipotesi remota, considerando amici e alleati del «leader» della Libia orientale, ma che non si può escludere.
Chi a inizio anno aveva sorriso di fronte alla sua idea di Gaza Riviera del Medio oriente – prontamente accettata dal premier israeliano Netanyahu – adesso comincia a realizzare che il tycoon faceva sul serio quando parlava del «trasferimento» definitivo in un altro paese degli oltre due milioni di palestinesi nella Striscia. Anche per la Libia la leva usata è quella economica. In cambio dell’accoglimento dei palestinesi, ha rivelato la Nbc, l’Amministrazione darebbe al governo di Tripoli miliardi di dollari della Libia che gli Stati Uniti tengono congelati da più di un decennio. Anche al 34° Summit arabo che si è concluso ieri a Baghdad, l’idea di Donald è stata cassata. Con un bel no allo sfollamento del popolo palestinese – già espresso al recente vertice del Cairo convocato sul piano egiziano di ricostruzione della Striscia entro cinque anni con 53 miliardi di dollari.
Ora da parte sua Israele va avanti con la sua offensiva militare e, come gli Usa, lavora dietro le quinte per trovare uno o più paesi disposti a ricevere i palestinesi da deportare. Impermeabile alle pressioni di ogni tipo e provenienza, l’esercito israeliano sta spingendo la popolazione di Gaza verso «spazi di accoglienza» di pochi chilometri quadrati che, secondo i media locali, sarebbero in via di allestimento. Il giornale Yediot Ahronot rivelava ieri che Israele installerà cancelli di ferro e posti di controllo quando gli sfollati provenienti dalla Striscia di Gaza settentrionale e centrale si sposteranno in massa a sud nella zona tra i corridoi Morag e Filadelfia, in cui verranno consegnati gli aiuti umanitari secondo le nuove modalità decise da Tel Aviv e Washington. La terza fase nel nord e nel centro di Gaza sarà simile a quanto accaduto a Rafah: le città saranno rase al suolo dalle ruspe.
Scopri di più da WHAT U
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.