

È Pietro Sermonti il protagonista della nuova puntata di “Stories”, il ciclo di interviste ai principali interpreti dello spettacolo di Sky TG24. Ospite del vicedirettore della testata Omar Schillaci, con la regia di Roberto Contatti, l’attore si racconta in “Pietro Sermonti – Italiano ma non troppo”. In onda lunedì 26 maggio alle 21:00 su Sky TG24, sabato 31 maggio alle 12:30 su Sky Arte e sempre disponibile On Demand.
Tante parti per Pietro Sermonti sin qui, con la sua ultima che è recentissima, avendo preso parte a ‘Maschi Veri’, nuova serie Netflix che ha debuttato in questo mese: “La serie parla del momento in cui degli uomini di mezza età, che si conoscono da sempre, italiani e diversissimi tra di loro, entrano in contatto con le problematiche che hanno rispetto al loro essere maschio”. Questi personaggi sono diversi tra di loro e ognuno ha i suoi problemi, ad esempio il personaggio interpretato da Pietro Sermonti, Luigi, “ha dimenticato come amare sua moglie. Questi quattro uomini sono nella zona esistenziale del ‘non ho capito’, sono spaesati e cercano, attraverso un corso, di distaccarsi dalla mascolinità, quella tossica. Secondo me, è una commedia, che sposta il baricentro del racconto verso una zona più sentimentale, più italiana, se vogliamo, ma non troppo italiana. Rappresenta la chiave migliore per trattare temi apparentemente complicati”. Rimanendo su Luigi, questa interpretazione e anche quella dei colleghi hanno portato l’attore a ragionare su qualcosa a cui non aveva mai pensato prima: “Una cosa molto divertente è che ognuno di noi non era propriamente nel suo ruolo, ma a me questa interpretazione ha insegnato a tirare un respiro in più, a indietreggiare quando serve, a entrare nei panni di una persona che io stimo tantissimo. È una bravissima persona, nel campionario europeo di stereotipi, tra maschi, si evidenzia la sua sensibilità. La delicatezza di Luigi Gatti mi ha portato ad amarlo tantissimo come personaggio”. Invece, su che maschio si sente di essere lui, l’attore rivela: “Ho cercato di capire una cosa importantissima, cioè che una persona che non sta bene, soprattutto se maschio, deve permette che gli altri la aiutino. La mia vita è cambiata quando ho capito che nella vita bisogna accettare di essere aiutati”.
Facendo un passo indietro, la storia di Pietro Sermonti inizia a Roma, in una casa situata in una zona in cui, di tanto in tanto, passa ancora con piacere: “Casa-Sermonti era in un posto che era una specie di piccolo paese dei balocchi, con tante palazzine e un campo da calcio in mezzo. Nel dettaglio, casa mia era un posto doloroso, i miei primissimi anni sono stati duri. Son cresciuto con mia madre e mia sorella, dato che con il mio babbo si son separati presto e lui è andato a vivere da un’altra parte. Mi sono salvato per la presenza in quel posto di un campo da calcio, era una protesi importantissima della mia casa. Io ero un bambino sempre addolorato e chiusissimo, mi sono salvato giocando a calcio. Quando segnavo, piangevo. Quindi segnavo tanto forse perché avevo bisogno di piangere”. Anche il periodo delle scuole è stato piuttosto duro: “Mi hanno bocciato quattro volte, un disastro, ma erano successe delle cose un po’ pesanti per cui io, che ero un buon studente, ad un certo punto ho deciso di rinnegare la scuola. Mi ero arrabbiato per una serie di ingiustizie che io ritenevo immotivate e non perdonavo. Dopo essere stato bocciato alla scuola francese, nello stesso anno sono stato bocciato anche agli esami di terza media. Quella volta sono svenuto davanti alla commissione e appena sono rinvenuto pensai di averla sfangata, ma invece no, mi avevano bocciato”. Prima di diventare attore, il sogno non troppo nascosto nel cassetto di Pietro Sermonti, era quello di diventare calciatore: “Io ho avuto una carriera calcistica abbastanza accidentata in quanto ero un viziosetto, dato che il mestiere del calciatore comincia prestissimo, ma anche perché appartengo a quella categoria di 38 milioni di italiani che se non si fossero fatti male, avrebbero vinto i mondiali”, ha ironizzato, aggiungendo che “ho giocato con Materazzi in Promozione per qualche partita. Giocare a pallone era l’unica cosa che sapevo fare, solo che ero un atipico, ero pigro, ero vizioso e poi non avevo una fame, una determinazione che mi ha permesso di capire presto di avere un dono che andava coltivato. Quella cosa lì è stato un dolore grande che mi sono portato dentro per tanto tempo, perché a un certo punto io a 19 anni mi sentivo un vecchio di 90. Ero già troppo vecchio per inseguire il sogno del calcio. Quindi mi chiedevo quanti talenti si possono avere nella vita, già era un miracolo averne uno…”. A quanto pare, però, un altro talento Pietro Sermonti lo aveva eccome. Basti pensare allo straordinario successo di ‘Un medico in famiglia’, o ‘Boris’, o ancora la trilogia di Sydney Sibilia ‘Smetto quando voglio’. A proposito di Boris, Sermonti ci tiene a ricordare che “quando uscì la prima volta, la vide solo il cast e i familiari. Io avevo un parametro, venivo dal successo di ‘Un medico in famiglia’, che era proprio nazionalpopolare con una quantità di pubblico smodata e tutti per anni mi hanno chiamato Guido come il mio personaggio, fino al 2011. Il primo Boris è del 2007… Ci sono voluti 4-5 anni prima che diventassi Stanis”. E aggiunge: “La cosa importante di Boris è il regalo che mi hanno fatto degli amici. Conoscevo gli autori da 40 anni e solo loro potevano darmi quel ruolo lì. Per tutti ero Guido di ‘Un medico in famiglia’, l’attore giovane, romantico… Solo loro sapevano com’ero in realtà. Quindi è un regalo perché mi hanno dato la possibilità di prendermi in giro”. La scintilla e l’amore per la recitazione, nasce però a teatro: “Facevo l’assistente a dei registi in teatro e poi, un giorno, ho visto un attore, Gianluca Gobbi, che faceva ‘Il Gabbiano’ di Cechov. Siccome io ‘Il Gabbiano’ lo conoscevo bene, ho chiesto al regista se potessi andare in scena ed è successo semplicemente che io sul palco mi sentivo molto più sincero che nella vita. Nel quotidiano mi sentivo una persona opaca, in crisi, incapace di avere sentimenti. Quel piccolo e meraviglioso incantesimo che era successo, che dentro ad un involucro, che dentro a parole scritte da un signore alla fine dell’Ottocento in Russia, io avevo una libertà, anche di disperarmi, e che mettere il dolore e tirarlo fuori era una cosa piacevole. Per questo lo faccio, e anche perché me lo hanno fatto fare”. In chiusura, c’è spazio anche per il lato più emotivo di Pietro Sermonti, che evidenzia la sua paura più grande e cosa vuol dire per lui provare amore: “L’incapacità di amare mi spaventa. Quando c’è stata l’ipotesi che io diventassi papà, mi si è spalancato un mondo perché ho capito che ero in grado di accogliere una persona più importante di me. Io quella cosa lì, anche se non è successo, me la porto dentro. Da questo dolore è nata maggiore consapevolezza. ‘Senza amore si muore’, ce l’ho tatuato sul braccio”.
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