L’anno scorso, Donald Trump aveva promesso che avrebbe posto fine alla guerra in Ucraina in “24 ore”. La scorsa settimana ha affermato che la questione non sarebbe stata risolta finché lui e il presidente russo Vladimir Putin non si fossero “riuniti” e avessero discusso la questione di persona. Ora le sue strategie sono di nuovo cambiate. Frutto di riflessioni fatte e idee maturate dopo la famosa telefonata di due ore con Putin che inizialmente sembrava potesse dare buoni frutti. Spingendolo persino a ipotizzare come luogo simbolico per ” i negoziati per un cessate il fuoco tra Ucraina e Russia” il Vaticano. Con buona pace del nuovo Papa. Ma poi è arrivato il commento lapidario del ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov che ha giudicato “irrealistico” un incontro tra delegazioni russa e ucraina nella Santa Sede. Perché la Russia è un paese ortodosso. Lasciando intendere gran poca disponibilità a fare pace con Zelensky. Così Trump anche se al la premier italiana Giorgia Meloni si era detta favorevole al fatto che l’Italia potesse agire da ponte tra i vari attori internazionali, seppur solo sotto il punto di vista strettamente logistico, tenuto conto che il Vaticano è uno stato a se stante, ha deciso di fare passi indietro. Putin, i giorni scorsi, si era limitato a dire che il suo Paese era pronto a collaborare con l’Ucraina per elaborare un “memorandum su un possibile futuro accordo di pace”. Ma i discorsi sui memorandum e su un “possibile futuro” di pace difficilmente sembrano costituire una base solida su cui costruire rapidamente accordi duraturi. Anche perché Putin pare giochi “a buttare il sasso e poi a nascondere la mano”. E visto che la situazione non si sposta di un solo millimetro, ora la possibilità gli Stati Uniti possano davvero abbondonare il tavolo dei negoziati appare sempre più concreta. Ma se gli Stati Uniti si laveranno le mani della guerra, come hanno minacciato anche il vicepresidente J.D. Vance e il segretario di Stato Marco Rubio, la domanda che si pongono molti è la seguente: ciò significa che gli Usa porranno fine anche a qualsiasi sostegno militare e di intelligence all’Ucraina? Perché questa ora è la grande paura di Zelensky, che ha detto: “È fondamentale per tutti noi che gli Stati Uniti non prendano le distanze dai colloqui e dalla ricerca della pace”. Chi conosce bene Trump ha lasciato trapelare che il presidente Usa sta esprimendo una grande frustrazione sia verso Putin sia verso Zelensky, per il fatto che gli sforzi per risolvere il conflitto che dura da tre anni non abbiano ancora avuto nemmeno la parvenza di una fine. Il mese scorso, il presidente degli Stati Uniti ha avvertito che non avrebbe tollerato che Putin “lo prendesse in giro”.
Trump non ha mai nascosto la sua frustrazione e la sua rabbia nemmeno nei confronti dell’Unione Europa. Da anni in pubblico e in privato, il presidente critica duramente Bruxelles, accusata di essere stata creata per “approfittarsi degli Stati Uniti”. E proprio questa sua frustrazione è all’origine della recente minaccia di applicare dazi al 50% dal primo giugno proprio in virtù dell’avvicinarsi del termine del 9 luglio, quando scadrà la pausa di 90 giorni concessa per le trattative sui dazi. Finora, riporta il Wall Street Journal, l’amministrazione Trump non è riuscita a spuntare granché dai contatti con l’Europa, e in particolare non è riuscita a portare a casa l’impegno di Bruxelles a imporre nuovi dazi sulle industrie cinesi, elemento ritenuto centrale in tutte le trattative americane in corso. Trump dal 15 al 17 giugno sarà in Canada per il G7, dove siederà al tavolo con le maggiori economie europee e con quella Ottawa che lui vorrebbe come 51mo stato americano. Pochi giorno dopo, il 24 e 25 giugno, presenzierà al vertice della Nato, quell’alleanza transatlantica che è una delle sue ossessioni fin dal primo mandato. Trump chiede infatti da anni ai paesi membri un aumento delle spese per la difesa in nome dell’America First: e se prima premeva per il 2% del pil, ora le sue richiesta si spingono ben oltre, intorno al 5%. Sul fronte commerciale “siamo stati derubati per anni, anche a livello di Nato. Ma ora non accadrà più”, ha detto il presidente.
Uno dei problemi nelle trattative con l’Ue – secondo gli osservatori – è la diversità nello stile della trattative. Bruxelles segue le regole del commercio mondiale nel negoziare e al tavolo è seduta convinta di confrontarsi con un alleato. Ma Trump – afferma il New York Times – non segue le regole e il copione internazionale. Il presidente vuole annunciare un accordo a breve e la lentezza dell’Ue è qualcosa che non riesce a digerire. A questo si aggiunge quanto notato da molti paesi impegnati a trattare con gli Stati Uniti: i negoziatori americani cercano offerte unilaterali, per loro la trattative “non sono dare e avere. È solo un prendere”. E con l’Europa la strada è ancora più in salita per le richieste presentate dagli Usa, quali l’eliminazione dell’imposta sul valore aggiunto e la modifica degli standard igienico-sanitari in modo da poter importare più carne americana. L’amministrazione preme anche per il cambio delle regole europee sui servizi digitali e i social media. A complicare ulteriormente il quadro sono le modalità di comunicazione americane, affidate in molti casi dal presidente al suo social Truth. “Non si può basare la politica su un post”, ha detto un diplomatico europeo ai media americani, spiegando come per l’Europa è difficile capire da un semplice post se il presidente intenda o meno dare seguito alle sua minaccia. A difendere il messaggino su Truth è il segretario al Tesoro Scott Bessent. Il negotiator-in chief sui dazi si è augurato che le poche righe del presidente agitino e spingano l’Ue ad accelerare i negoziati. Per evitare un nuovo crollo dei mercati. Insomma non proprio una cosa da niente.
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