[gtranslate] STRAGE DI CAPACI, NORDIO A PALERMO PER IL 32° ANNIVERSARIO - WHAT-U

GIOVANNI FALCONE

Il Ministro della Giustizia italiano, Carlo Nordio, domani 23 maggio, sarà a Palermo per la ‘Giornata della legalità’ in ricordo di tutte le vittime delle mafie, nel 32° anniversario della strage di Capaci, dove persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. La giornata inizierà con l’inaugurazione a Palazzo Jung del “Museo del presente e della memoria della lotta alle mafie”, voluto dalla Fondazione Falcone, presieduta dalla sorella del magistrato ucciso, Maria Falcone. Nel pomeriggio il Guardasigilli Nordio si recherà all’Albero Falcone, dove alle 17:58 sarà osservato un minuto di silenzio, all’ora esatta della strage.

Anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione del 32° anniversario della strage di Capaci, con una dichiarazione diramata dal Quirinale, ha ricordato Falcone, la moglie, tutti gli uomini della scorta uccisi nell’attentato e il giudice Borsellino, che morì in un altro agguato due mesi dopo.

«L’attentato di Capaci fu un attacco che la mafia volle scientemente portare alla democrazia italiana. Una strategia criminale, che dopo poche settimane replicò il medesimo, disumano, orrore in via D’Amelio. Ferma fu la reazione delle Istituzioni e del popolo italiano. Ne scaturì una mobilitazione delle coscienze. La lezione di vita di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino divennero parte della migliore etica della Repubblica. A trentadue anni da quel tragico 23 maggio è doveroso ricordare anzitutto il sacrificio di chi venne barbaramente ucciso: Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani. Insieme a loro ricordiamo Paolo Borsellino, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina. Testimoni di legalità, il cui nome resta segnato con caratteri indelebili nella nostra storia. I loro nomi sono affermazione di impegno per una vittoria definitiva sul cancro mafioso e il pensiero commosso va ai loro familiari che ne custodiscono memoria ed eredità morale. Come sostenevano Falcone e Borsellino, la Repubblica ha dimostrato che la mafia può essere sconfitta e che è destinata a finire. L’impegno nel combatterla non viene mai meno. I tentativi di inquinamento della società civile, le intimidazioni nei confronti degli operatori economici, sono sempre in agguato. La Giornata della legalità che si celebra vuole essere il segno di una responsabilità comune. È necessario tenere alta la vigilanza. Gli anticorpi istituzionali, la mobilitazione sociale per impedire che le organizzazioni mafiose trovino sponde in aree grigie e compiacenti, non possono essere indeboliti.  L’eredità di Falcone e Borsellino è un patrimonio vivo che appartiene all’intera comunità nazionale. Portare avanti la loro opera vuol dire lavorare per una società migliore».

La strage di Capaci

Giovanni Falcone venne assassinato in quella che comunemente è detta strage di Capaci, il 23 maggio 1992, cinque giorni dopo il suo 53º compleanno. Il giudice, come era solito fare nei fine settimana, stava tornando in Sicilia da Roma. Il jet di servizio partito dall’aeroporto di Ciampino arrivò intorno alle 16:45 all’aeroporto di Punta Raisi dopo un viaggio di 53 minuti. Il boss Raffaele Ganci seguiva tutti i movimenti del poliziotto Antonio Montinaro, il caposcorta di Falcone, che guidò il corteo delle tre Fiat Croma blindate dalla caserma “Lungaro” fino a Punta Raisi, dove dovevano prelevare Falcone; Ganci telefonò a Giovan Battista Ferrante (mafioso di San Lorenzo, che era appostato all’aeroporto) per segnalare l’uscita dalla caserma di Montinaro e degli altri agenti di scorta. Sceso dall’aereo, Falcone si sistemò alla guida della Fiat Croma bianca con accanto la moglie Francesca Morvillo, mentre l’autista giudiziario Giuseppe Costanza andò a occupare il sedile posteriore. Nella Croma marrone si era posto alla guida Vito Schifani, con accanto l’agente scelto Antonio Montinaro e sul retro Rocco Dicillo, mentre nella Croma azzurra c’erano Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Le tre auto si misero in fila, con in testa la Croma marrone, poi la Croma bianca guidata da Falcone e in coda la Croma azzurra, che imboccarono l’autostrada A29 in direzione Palermo. In quei momenti, Gioacchino La Barbera (mafioso di Altofonte) seguì con la sua auto il corteo blindato dall’aeroporto di Punta Raisi fino allo svincolo di Capaci, mantenendosi in contatto telefonico con Giovanni Brusca e Antonino Gioè (capo della Famiglia di Altofonte), che si trovavano in osservazione sulle colline sopra Capaci. Alle ore 17:58, 3-4 secondi dopo aver chiuso la telefonata con La Barbera e Gioè, Brusca azionò il telecomando che provocò l’esplosione di 500 kg di tritolo sistemati all’interno di fustini in un cunicolo di drenaggio sotto l’autostrada: la prima auto, la Croma marrone, venne investita in pieno dall’esplosione e sbalzata dal manto stradale in un giardino di olivi a più di dieci metri di distanza, uccidendo sul colpo gli agenti Montinaro, Schifani e Dicillo; la seconda auto, la Croma bianca guidata dal giudice, avendo rallentato, si schianta invece contro il muro di cemento e detriti improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio, proiettando violentemente Falcone e la moglie, che non indossano le cinture di sicurezza, contro il parabrezza; rimangono feriti gli agenti della terza auto, la Croma azzurra, che infine resiste, e si salvano miracolosamente anche un’altra ventina di persone che al momento dell’attentato si trovano a transitare con le proprie autovetture sul luogo dell’eccidio. La detonazione provoca un’esplosione immane e una voragine enorme sulla strada. In un clima irreale e di iniziale disorientamento, altri automobilisti e abitanti dalle villette vicine danno l’allarme alle autorità e prestano i primi soccorsi tra la strada sventrata e una coltre di polvere. Circa venti minuti dopo, Giovanni Falcone venne trasportato sotto stretta scorta di un corteo di vetture e di un elicottero dell’Arma dei Carabinieri presso l’ospedale civico di Palermo. Gli altri agenti e i civili coinvolti vennero anch’essi trasportati in ospedale mentre la polizia scientifica eseguì i primi rilievi e il corpo nazionale dei Vigili del Fuoco provvide a estrarre dalle lamiere i cadaveri, resi irriconoscibili, degli agenti della Polizia di Stato Schifani, Montinaro e Dicillo. Intanto la stampa e la televisione iniziarono a diffondere la notizia di un attentato a Palermo e il nome del giudice Falcone trovò via via conferma. L’Italia intera, sgomenta, trattenne il fiato per la sorte delle vittime, con tensione sempre più viva, fino al decesso di Falcone, che si ebbe alle 19:05, dopo un’ora e sette minuti dall’attentato e alcuni tentativi di rianimazione, a causa della gravità del trauma cranico e delle lesioni interne. Senza riprendere più conoscenza, morì poi fra le braccia di Borsellino. Francesca Morvillo morirà invece sotto i ferri intorno alle 22:00. La salma del magistrato italiano fu inizialmente tumulata in una tomba monumentale nel cimitero di Sant’Orsola a Palermo. Nel giugno 2015 fu poi traslata nella Chiesa di San Domenico, situata sempre nel capoluogo siciliano.

Le reazioni alla strage

Mentre a Roma veniva eletto presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, a Palermo, nella Chiesa di San Domenico, si svolgevano i funerali delle vittime ai quali partecipò l’intera città, assieme a colleghi e familiari e personalità come Giuseppe Ayala e Tano Grasso. I più alti rappresentanti del mondo politico, come Giovanni Spadolini, Claudio Martelli, Vincenzo Scotti e Giovanni Galloni, furono duramente contestati dalla cittadinanza. Le immagini televisive delle parole e del pianto straziante della giovanissima Rosaria Costa, vedova dell’agente Schifani, “io vi perdono, ma voi vi dovete mettere in ginocchio”, suscitarono particolare emozione nell’opinione pubblica. Nel giugno 1992, ad appena un mese dalla strage, il quotidiano Il Sole 24 Ore realizzò uno scoop, pubblicando alcuni appunti personali che erano stati consegnati da Falcone nel 1991 alla giornalista Liliana Milella e che vennero soprannominati giornalisticamente i “diari di Falcone”: in essi il magistrato esprimeva il suo disappunto nei confronti del procuratore capo Pietro Giammanco e l’amarezza per il clima di isolamento in cui si trovava all’interno della Procura di Palermo prima di accettare l’incarico ministeriale. Gli appunti furono riconosciuti come autentici da molti colleghi del giudice, come Paolo Borsellino.

La magistrata Ilda Boccassini, rivolgendosi ai colleghi nell’aula magna del tribunale di Milano, dichiarò: «Voi avete fatto morire Giovanni, con la vostra indifferenza e le vostre critiche; voi diffidavate di lui; adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali». Nel suo sfogo la magistrata, che si fece poi trasferire a Caltanissetta per indagare sulla strage di Capaci, ricordò anche il linciaggio subito dall’amico Falcone da parte dei suoi colleghi magistrati, anche facenti capo alla stessa corrente cui Falcone aderiva: «Due mesi fa ero a Palermo in un’assemblea dell’ANM. Non potrò mai dimenticare quel giorno. Le parole più gentili, specie da Magistratura democratica, erano queste: Falcone si è venduto al potere politico. Mario Almerighi lo ha definito un nemico politico. Ora io dico che una cosa è criticare la Superprocura. Un’altra, come hanno fatto il Consiglio superiore della magistratura, gli intellettuali e il cosiddetto fronte antimafia, è dire che Giovanni non fosse più libero dal potere politico. A Giovanni è stato impedito nella sua città di fare i processi di mafia. E allora lui ha scelto l’unica strada possibile, il ministero della giustizia, per fare in modo che si realizzasse quel suo progetto: una struttura unitaria contro la mafia. Ed è stata una rivoluzione», La Boccassini criticò anche l’atteggiamento dei magistrati milanesi impegnati in Mani pulite:

«Tu, Gherardo Colombo, che diffidavi di Giovanni, perché sei andato al suo funerale? Giovanni è morto con l’amarezza di sapere che i suoi colleghi lo consideravano un traditore. E l’ultima ingiustizia l’ha subìta proprio da quelli di Milano, che gli hanno mandato una richiesta di rogatoria per la Svizzera senza gli allegati. Mi ha telefonato e mi ha detto: “Non si fidano neppure del direttore degli Affari penali”»

Ilda Boccassini confermò le critiche in un’intervista a La Repubblica del maggio 2002, in occasione dell’affissione di una targa in memoria di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia. La magistrata criticò gli onori postumi offerti a Falcone, sostenendo che: «Né il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento. […] Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità. Eppure le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di “amici” che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni che lo ha colpito». Nell’intervista ricordò anche come diversi magistrati e politici, vicini a partiti sia della sinistra che della destra, avessero in passato criticato fortemente Falcone. In particolare, forte era stata l’opposizione a Falcone dei magistrati vicini al PDS: al CSM per diverse volte il magistrato palermitano aveva subito dei veti. Ad esempio, quando aveva concorso al posto di super-procuratore antimafia, gli era stato preferito Agostino Cordova, all’epoca procuratore capo di Palmi. Nell’occasione, Alessandro Pizzorusso, componente laico del CSM designato dal Partito Comunista, aveva firmato un articolo sull’Unità sostenendo che Falcone non sarebbe stato “affidabile” e che, essendo “governativo”, avrebbe perso le sue caratteristiche di indipendenza. Già in precedenza, quando – a seguito del collocamento a riposo di Caponnetto – al Consiglio superiore della magistratura si era dovuto decidere se Falcone dovesse essere posto o meno a capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, gli era stato preferito Antonino Meli; avevano votato per quest’ultimo, e quindi contro Falcone, anche gli esponenti di Magistratura democratica, vicini al PDS, Giuseppe Borré ed Elena Paciotti, quest’ultima poi eletta europarlamentare dei Democratici di Sinistra. Dopo la sua morte, Leoluca Orlando, commentando l’ostracismo che Falcone aveva subito da parte di alcuni colleghi negli ultimi mesi di vita, disse: «L’isolamento era quello che Giovanni si era scelto entrando nel Palazzo dove le diverse fazioni del regime stavano combattendo la battaglia finale». All’esecrazione dell’assassinio, il 4 giugno si unì anche il Senato degli Stati Uniti, con una risoluzione (la n. 308) intesa a rafforzare l’impegno del gruppo di lavoro italo-americano, di cui Falcone era componente. La Corte Suprema degli Stati Uniti, massimo organo giurisdizionale USA, ricordò il 29 ottobre 2009 Giovanni Falcone in una seduta solenne quale “martire della causa della giustizia”.

In un’intervista del 2008 al Corriere della Sera l’ex Presidente della Repubblica Italiana Francesco Cossiga ha imputato al Csm grosse responsabilità riguardo alla morte del Giudice Falcone, affermando: “i primi mafiosi stanno al CSM. [Sta scherzando?] Come no? Sono loro che hanno ammazzato Giovanni Falcone negandogli la DIA e prima sottoponendolo a un interrogatorio. Quel giorno lui uscì dal CSM e venne da me piangendo. Voleva andar via. Ero stato io a imporre a Claudio Martelli di prenderlo al Ministero della Giustizia”. La circostanza del ruolo di Cossiga (e di Giuliano Vassalli) è stata confermata fra gli altri da Calogero Mannino e comunque fu partecipata pubblicamente dallo stesso interessato.

Giovanni Falcone
«La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano, e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.»
(Giovanni Falcone, Rai 3, 30 agosto 1991)



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