[gtranslate] REMO BIANCO, ARTISTA POLIEDRICO, IN MOSTRA AL MUSEO DEL NOVECENTO - WHAT-U

di Marisa Campinelli

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Remo Bianco che imita il gesto da lui rappresentato in uno dei suoi quadri parlanti

Le impronte della memoria“, un nome emblematico quello della mostra di Remo Bianco allestita nel Museo del Novecento a Milano, curata da Lorella Giudici, che presenta oltre 70 opere dell’artista, ripercorrendo le fasi della sua ricerca, rappresentandone i percorsi di vita e di lavoro, intrecciati in un flusso di straordinaria energia creativa. Bianco nasce in una famiglia modesta, e cresce in un quartiere della Milano popolare, in via Giusti, nel cuore della vecchia città, nei pressi dell’Arena. Nelle ore libere dallo studio fin da bambino trascorre ore e ore a disegnare. La scelta di frequentare la scuola serale di disegno a Brera, si trasforma in un’opportunità che gli cambierà la vita.

È lì che a soli 17 anni incontra per la prima volta Filippo de Pisis, pittore e scrittore italiano, uno tra i maggiori interpreti della pittura italiana della prima metà del Novecento. Ai tempi, non era raro che i maestri andassero all’accademia a guardare i lavori dei giovani studenti per dare loro qualche buon consiglio. Quel giorno era toccato a lui. “de Pisis è stato per me un maestro eccezionale (maestro di vita soprattutto), mi ha orientato verso una cultura artistica ampia, anche se in un certo senso antiaccademica”, ammise in seguito Bianco. La capacità e predisposizione a sperimentare nuove idee e a inventare e seguire percorsi differenti lo hanno reso uno degli artisti tra i più poliedrici del suo tempo, con un approccio divertito e sempre attento ai materiali e alle intuizioni espressive. Affascinato dalla cultura del mondo musulmano, che ebbe modo di conoscere nelle vesti di soldato durante la Seconda Guerra Mondiale, fu poi durante nell’andirivieni da Venezia che decise che nella sua vita avrebbe fatto per sempre l’artista. Il ’48 fu l’anno della svolta: tenne le sue prime mostre personali (due: una a giugno e l’altra ad agosto) negli spazi del Gruppo Esagono e abbandonò le esercitazioni accademiche per dedicarsi alla pittura su vetro e su fogli di plexiglass trasparente, che sovrapposti creavano effetti di profondità e movimento.

3D Senza titolo, 1970
3D Senza titolo, 1954

Erano i primi 3D o quadri tridimensionali che portò avanti, a più riprese, fino agli anni sessanta. Poi Bianco si dedicò a quelle che amava definire le “tracce dell’uomo” ossia le prime impronte in gesso di cose comuni, e per la precisione, di tutti quegli oggetti del suo vissuto quotidiano che “erano venuti in contatto” con lui, come scrisse qualche anno dopo nel Manifesto dell’Arte Improntale (1956). Seguendo lo stesso filone Bianco diede vita ai Bassorilievi in gomma (metà degli anni cinquanta), alle Impronte sonore (1961) e alle Impronte viventi (1964). Nel 1952, conobbe Lucio Fontana. E subito dopo Bianco espose i 3D alla Galleria del Cavallino di Venezia. Ma è il 1953 il suo anno fortunato perché incontra Virgilio Gianni, l’industriale mecenate milanese che gli offre l’opportunità di fare un lungo viaggio negli Stati Uniti dove Bianco scopre subito canali estetici molto importanti “Burri per esempio” disse lui. Con Pollok Bianco comprese per esempio, di avere una grande affinità di temperamento, ma si rammaricò di non avere avuto il tempo sufficiente di approfondire quella nuova amicizia. Dire che mostra di Bianco regala un viaggio davvero speciale e variegato nel mondo dell’arte è lapalissiano.

Tableau doré, 1965
Tableau Doré – Senza titolo,1957 Museo 900

Dalle Impronte, calchi in gesso, cartone pressato o gomma ricavate dai segni lasciati da un’automobile sull’asfalto, o da tracce di oggetti comuni, come giocattoli o attrezzi ai Sacchettini -Testimonianze, realizzati assemblando oggetti di poco valore – monete, conchiglie, piccoli giocattoli, frammenti – in sacchetti di plastica fissati su legno e appesi come un quadro; dalle prime opere tridimensionali – i 3D – in materiale plastico trasparente o vetro e, successivamente, su legno, lamiera e plexiglas colorato, dove l’immagine è la combinazione di figure poste in successione su piani differenti, che ne esaltano la profondità alla serie

Remo Bianco mostra una delle sue opere
Remo Bianco qui fotografato accanto al suo “castello di carte”

di Collages, basata su un effetto combinatorio di immagini, realizzate con la tecnica del dripping su un unico piano, di tela, carta o stoffa; dai magnifici Tableaux Dorés, uno dei cicli più noti dell’artista, con sfondo bicolore, trattato a olio o a smalto, su cui sono disposte le foglie d’oro oppure con sfondo monocromo realizzati con paglia o stoffa alle opere di Arte sovrastrutturale che esprimono l’esigenza di fissare nella memoria in modo indelebile ricordi e realtà, come le Sculture neve, teatrini poetici i cui protagonisti sono oggetti comuni tratti dal mondo dell’infanzia, della natura o della vita quotidiana ricoperti di neve artificiale e disposti in teche trasparenti ai Quadri parlanti, tele non lavorate in cotone bianco o nero, oppure impressionate con fotografie, sul cui retro sono stati posizionati degli amplificatori che, all’avvicinarsi dello spettatore, si attivano emettendo suoni o frasi registrate dall’artista. Come il noto quadro dove Bianco si auto-ritrae con il dito puntato, immagine già utilizzata nel 1965 quando, in occasione di una personale alla Galleria del Naviglio, la foto è comparsa su tutti i tram milanesi coinvolgendo l’intera comunità.  E la frase che pronuncia è: “Scusi signore…”.

Scultura neve – Circo cinese, 1970
Impronta (Giocattoli), 1956

L’esposizione al Museo del Novecento ripercorre questo ricco e sorprendente percorso lungo il quale Bianco ha sempre esplorato proprio il tema della memoria, attraverso le sue opere e tramite

un’esaustiva documentazione d’archivio: cataloghi, manifesti, articoli e fotografie d’epoca. Il catalogo della mostra, edito da Silvana, è corredato dai testi di Lorella Giudici ed Elisa Camesasca, dagli apparati a cura di Gabriella Passerini e Alberto Vincenzoni e riporta un’interessante intervista a Marina Abramović del 2012, riguardo al lavoro di Remo Bianco, conosciuto nel 1977. Come dire i grandi non muoiono e continuano a vivere nelle opere che hanno lasciato.

Sacchettini – Testimonianze, 1956

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