[gtranslate] DE SOUZA, DIRETTORE DELLA MEDICINA DI URGENZA ALL'OSPEDALE DI BROOKLYN RACCONTA LA SUA ESPERIENZA 'A TU PER TU' CON IL COVID-19 - WHAT-U

Sylvie de Souza è il direttore della Medicina di Urgenza al Brooklyn Hospital Center

di Patrizia Rossi Benetti

Sylvie de Souza è il direttore della Medicina di Urgenza al Brooklyn Hospital Center, che oggi è l’unico ospedale nel centro di Brooklyn. Con un totale di 464 letti, questo ospedale ha il vanto di offrire assistenza medica primaria e specializzata, servizi diagnostici e terapeutici sofisticati, tecnologia all’avanguardia e chirurgia specializzata a oltre 300.000 pazienti ogni anno. What-u l’ha raggiunta telefonicamente per farsi raccontare proprio da lei che è stata continuamente in prima linea sul fronte dei soccorsi dei malati Covid-19, cosa è accaduto e cosa tuttora succede nel suo ospedale.

Il suo ospedale è stato tra quelli con il maggior numero di pazienti ricoverati perché contagiati dal Covid. Com’è riuscita a gestire la situazione di emergenza?

«Nel pronto soccorso, abbiamo iniziato lo screening molto presto. Non appena è stato dichiarato un caso a New York , ci siamo preparati a sottoporre allo screening di tutti i pazienti che presentavano sintomi simil-influenzali e questo processo è stato implementato fino al 3 marzo. In quel periodo non c’erano morti per COVID-19 e sapevamo ben poco della malattia, ma ritenevamo che questa fosse la cosa più sicura da fare. Abbiamo deciso che tutti i pazienti che presentavano sintomi da “ILI” (malattia simil-influenzale) sarebbero stati considerati possibili casi di COVID. Abbiamo dato a tutti loro una maschera, li abbiamo schermati tutti, separati dai pazienti che arrivavano al Pronto Soccorso con altre emergenze, testando quelli a rischio più elevato, seguendo Le raccomandazioni contenute nelle linee guida che forniscono informazioni su come gli operatori sanitari devono comportarsi con i pazienti Covid. Inizialmente, pochissimi pazienti hanno avuto bisogno di essere ricoverati in ospedale, ma questa situazione è cambiata rapidamente quando abbiamo visto il numero delle visite giornaliere raddoppiarsi. E nel giro di pochissimi giorni, tanto sono aumentati i malati tanto di sono acutizzati i sintomi e le malattie, i pazienti si sono presentati con polmoniti gravi e basse sature di ossigeno. Inizialmente abbiamo designato un’area del nostro dipartimento di emergenza per valutare e curare i pazienti con sospetto COVID 19. Dopo circa 10 giorni è diventato evidente che dovevamo espandere la “zona COVID-19”: abbiamo fatto un rapido rimodellamento per dividere l’intera emergenza dipartimento in due zone sigillate ermeticamente: una zona COVID 19 e una zona “sicura”. Era la cosa più sicura da fare per proteggere gli altri pazienti oltre che il personale medico. Il 19 marzo, al fine di decomprimere il pronto soccorso ed evitare che i pazienti fossero esposti inutilmente al virus restando nella sala di attesa dell’ambulatorio, abbiamo diviso le zone con una tenda. I pazienti con sintomi simil-influenzali sono stati sottoposti a screening, hanno ricevuto una maschera e, a seconda della categoria di rischio e del loro stato clinico, sono stati portati al pronto soccorso opure è stato detto loro di tornare a casa e auto isolarsi, oltre che di indossare la mascherina. In quel momento ci siamo avvicinati a toccare il picco dell’emergenza, che poi si è verificato la settimana successiva».

Sylvie de Souza con il suo staff
Quali sono state le prime difficoltà?

«Tenere il passo. Il numero dei pazienti, come ho già detto è raddoppiato, ogni giorno abbiamo avuto un flusso costante di persone che arrivavano al Pronto Soccorso in situazioni già critiche, gravemente malati, bisognosi di rianimazione e supporto vitale. Abbiamo dovuto gestire la loro paura tanto quanto la loro malattia. Abbiamo dovuto rassicurare i pazienti quando ci siamo trovati di fronte alla nostra stessa paura. Non tanto per noi stessi ma per le nostre famiglie e le persone care e per evitare possibili contagi alcuni di noi hanno scelto di auto isolarsi. Altri sono andati a vivere persino in hotel. L’altra sfida che abbiamo dovuto affrontare erano le linee guida e le raccomandazioni per i test in continua evoluzione; presto nella pandemia, ci siamo limitati a testare solo i pazienti che sono stati ricoverati in ospedale e gli operatori sanitari. Abbiamo dovuto usare tutte le nostre capacità comunicative e compassione per consigliare e rassicurare i pazienti, che non potevamo essere sottoposti ai test. Tra l’altro le nostre scorte di forniture diminuivano ogni giorno che passava: quelle di DPI (N.d.R. ossia di dispositivi di protezione individuale), come maschere, abiti, kit di test virali, senza alcuna garanzia di una data o fonte di rifornimento. Nonostante tutte le sfide, non abbiamo mai perso le speranze: ogni volta che siamo arrivati ​​alle ultime scatole di DPI, come per miracolo, qualche generosa donazione da vicino e lontano è arrivata dalla comunità in cui viviamo».

Quali sono state le difficoltà più grandi e più difficili da risolvere?

«Gestire le famiglie dei pazienti che erano gravemente malati compassionevolmente cercando di tenerli lontani dai loro cari anche quando ne sentivano maggiormente la mancanza è stato straziante. Così abbiamo creato rapidamente soluzioni di videoconferenza per consentire loro di comunicare. Sfortunatamente per alcuni dei pazienti e e le loro famiglie, quelle sono state le ultime conversazioni intercorse fra loro. Nonostante le urgenze abbiamo cercato di dare coraggio ai pazienti, di stringere le loro mani per aiutarli a superare la paura, l’ansia, l’angoscia, abbiamo dovuto prendere decisioni difficili con loro o per loro quando dovevano ammalarsi per farlo, tenendosi per mano, mentre provavamo a salvarli da questo nemico invisibile. Ne abbiamo persi tanti. Più di quelli che avevamo perso in tutta la nostra carriera, in così breve tempo. E quando la morte ha avuto il sopravvento ci siamo sentiti demoralizzati, e talvolta a un passo dalla sconfitta. Anche molti di noi si sono ammalati e quando siamo guariti, siamo tornati al lavoro dove sapevamo che i nostri colleghi nelle trincee, i pazienti avevano bisogno di noi».

E adesso?

«Ora che il volume delle emergenze al pronto soccorso è diminuito, ma le persone continuano ad ammalarsi di Covid-19. Quello a cui abbiamo assistito negli ultimi 59 giorni è stata un’ecatombe. Qualcosa che adesso che abbiamo un po’ più di tempo per riflettere è difficile da elaborare e ci rendiamo conto che è più di quanto un cuore possa gestire. Ogni mattina leggiamo, ascoltiamo le parole del sindaco, le dichiarazioni del governatore che parlano dei numeri dei contagiati, dei morti».

«Per noi, dietro ogni numero, c’è il volto di uno dei nostri pazienti, una famiglia distrutta per la perdita di uno o più dei loro cari, la paura e l’ansia. Cerchiamo di concentrarci sui nostri successi, pensiamo a chi abbiamo salvato, ai sopravvissuti e cerchiamo di dare speranza. Ma di notte, pensiamo a quelli che non siamo riusciti a salvare, e sì, piangiamo. Nessuno di noi sarà mai più lo stesso di prima».

Quando hai pensato che quello che stavi facendo fosse troppo difficile?

«Niente è stato troppo difficile quando eravamo in trincea, nel bel mezzo della battaglia. Lo abbiamo fatto per salvarne il maggior numero possibile di persone. Ciò che è difficile è il momento, il non sapere veramente quale sarà il prossimo. Questa era una guerra, ma ci siamo uniti e siamo stati determinati nel pensare di vincerla».

Un ricordo di questa esperienza che per te resterà indelebile?

«L’incontro con la madre di uno dei nostri amati studenti di medicina quando l’ha portata al pronto soccorso perché aveva i sintomi del Covid-19. Quando l’ho visto e gli ho chiesto cosa era venuto a fare in ospedale e lui mi ha detto che aveva portato sua madre, così sono corsa subito da lei. Le ho detto che ci saremmo presi cura di lei. E lei mi ha fatto un sorriso orgoglioso raggiante e mi ha detto “grazie”. La saturazione del suo ossigeno era bassa, ma mi sono detta: ce la farà, deve farcela. Lei è giovane e vibrante. Ho scoperto alcuni giorni dopo che COVID 19 non le aveva dato scampo. Il suo sorriso resterà per sempre impresso nella mia memoria».

Che idea si è fatta del Covid-19?

«Quando abbiamo visto l’epidemia evolversi in Cina, poi in Italia, sapevamo che era solo questione di tempo, che dovevamo essere preparati, ma nessuno di noi era preparato a questo assassino invisibile che ha continuato a scegliere le sue vittime senza pietà».

Lei era in prima linea nella battaglia contro Covid. Ha avuto paura du ammalarsi?

«Sì. Tutti avevamo paura. Siamo stati costantemente vicino al pericolo, mentre tutti gli altri potevano restare a casa. Ma questo è quello che facciamo, questo è il nostro lavoro. Dopotutto siamo operatori di emergenza. Siamo stati addestrati per le emergenze. Sì, eravamo spaventati, ma non potevamo lasciare che la paura ci paralizzasse. E poi non abbiamo neppure avuto il tempo per pensare alla paura. Dovevamo combattere. L’unica paura che avevamo, come ho già detto, era di portare questo virus a casa e fare ammalare i nostri cari. Il nostro stress è stato correlato a quello dei soldati che sono andati in guerra».

Com’è la situazione adesso?

«Vediamo meno casi, ma non siamo in pace. Ci chiediamo se questo è reale. Se rimarrà così. Se tornerà questo mostro e come lo affronteremo di nuovo».

Un altro forte attacco di Coronavirus è previsto in autunno e in inverno. Il vostro ospedale è già attrezzato per affrontarlo?

«L’ospedale è attrezzato e siamo sempre preparati dal punto di vista logistico. Non se ogni operatore in prima linea sarà guarito dalle ferite invisibili, dallo ‘stress da combattimento’ che abbiamo appena vissuto».



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